Testimonianze di familiari

Testimonianze di familiari

Ognuno affronta in modo diverso e personale il percorso che segue alla morte di una persona cara. Abbiamo perciò inserito delle testimonianze di persone con le quali siamo venuti in contatto. Spesso, leggere le esperienze degli altri è un po’ come una condivisione: aiuta a trovare le parole per esprimere le proprie risonanze, fa luce su ciò che ci accomuna e che ci distingue nel percorso del nostro lutto personale.

Uno squillo di telefono nella notte. Mio genero mi dice con voce atona che mia figlia Benedetta ha smesso di respirare. Me l’aspettavo: li avevo lasciati soli perché lei potesse vivere questa ultima intimità con lui, con lui che amava tanto.

Corriamo all’ospedale per poterla rivedere almeno un attimo. E i bambini? Cosa fare, cosa dire ora? Torniamo a casa. I bambini dormono con l’altra mia figlia nel grande lettone dei genitori. Il dolore mi squassa e mi sembra che il petto si apra. Come faremo senza di lei? Come poter spiegare ai bambini una perdita così grande, come andare avanti?

Siamo tutti riuniti in salotto. Sono le cinque di mattina, la notte sta schiarendo e i bambini dormono tranquilli. La loro zia li tiene abbracciati nel sonno. Lei sa già. Poi alle otto sentiamo i passi di B., la più’ grande, 10 anni, per le scale. “Perché siete tutti qui, perché non siete con la mamma?”. Il padre le dice che “la mamma non ha più bisogno di noi, ora sta bene, ci ha lasciati”.

Un pianto convulso la scuote: “E ora dov’è?”. “Non sappiamo, speriamo in cielo con i nonni che l’avranno accolta, sicuramente è dentro di noi”.

Mi stupisce che B., improvvisamente, chieda se si sarebbero comunque trasferiti nella nuova casa, l’ultimo nostro regalo alla loro mamma perché avesse qualcosa di bello a cui pensare.

Un desiderio di futuro, di cambiamento, di fuga da quel dolore verso uno spazio di creatività, di libertà. Poi salgono anche i due più piccoli: O., 8 anni, si stringe al padre e alla sorella, uniche fonti per lei di sicurezza in quel momento. “Loro ci sono.”. Per ultimo G. Il piccolino, quasi 4 anni, ignaro e spaventato, l’unico tenuto all’oscuro della terribile malattia… “tanto non capirebbe.”. Ora la mamma è su “una stella in cielo”, gli viene detto dal padre e lui ci guarda con occhi persi.

Le bimbe seguono passo passo i terribili devastanti giorni che seguono e salutano ripetutamente la loro mamma, l’accarezzano, la baciano, ne guardano l’immobilità, si abituano al suo pallore, piangono e fanno domande. G. è tenuto all’oscuro, fuori da tanto dolore e non condivide nulla con noi.

O. timidamente mi chiede se si può provare a “farla baciare dal babbo” per vedere se può accadere che si risvegli “come la Bella Addormentata”.

Il dolore che provo mi fa quasi vomitare. Come controllare il mio dolore di madre dimezzata per aiutare a lenire quello loro, un dolore di figli bambini?

La vita poi riprende in mezzo a continue emozioni e ora, due anni dopo la sua scomparsa, la mia vita, giorno dopo giorno, continua a essere dedicata a lei, a ciò che ci siamo dette e promesse fino alla fine, ai suoi bambini, l’unico vero rimpianto nel suo lasciarci: non poter vedere compiuto il miracolo delle loro vite. La presenza della sua assenza è continua e io sopravvivo. Con i bambini parliamo di lei, di ciò che faceva, diceva, amava, come se fosse ancora “nella stanza accanto. Voglio che loro abbiano la sicurezza di questa presenza, di lei che li ha adorati, e che, forse, li ha esageratamente ritenuti “speciali”. Lei mi raccomandava di dire loro che la loro mamma li riteneva “unici” e che loro dovevano essere fieri della loro “unicità”. Credo che le bambine abbiano dentro la loro mamma e mi sembrano più serene e aperte agli altri, anche se non amano parlare delle loro emozioni. La loro mamma non temeva per loro; mi diceva che le sarebbe piaciuto avere avuto più anni per stare con loro.

Ma G. è arrabbiato, odia gli alberi che coprono la vista alla sua mamma che è in cielo e non lo può vedere e a lui che non può vedere il brillare della sua stella. G. si è chiuso, cambia umore, ha paura e tira calci a chi lo contraddice. Io continuo a parlargli di lei e lui a me. ama parlarne e sembra rilassarsi quando gli racconto di quando lui era nella pancia della sua mamma o di quando era piccolo; sul suo viso appare un sorriso beato. Come tutti, ha bisogno di certezze e d’amore, ha bisogno di collocare la sua mamma, di spostarla da “tra le nuvole” a “dentro di sé”: ancora non ci è riuscito.

Riusciremo mai, noi tutti, a vivere in quell’incertezza che la vita ci richiede, godendo dei momenti luminosi che ci dona, qui e ora? Quelli non li perderemo.

Una nonna

Ho pensato e ripensato per anni a quella mezz’ora che ha cambiato la mia adolescenza e probabilmente tutta la mia vita. Mio fratello Lorenzo aveva appena compiuto 18 anni ed è morto in uno stupido incidente in mare, davanti a tutti i suoi familiari e amici, io avevo 15 anni. Dapprima ho avuto un senso di estraneità, non ho realizzato subito cosa fosse successo, poi ho provato, rabbia, dolore, disperazione e nostalgia.

Mia madre è sparita nel suo dolore, nelle sue ossessioni; mio fratello più piccolo era ammutolito, smarrito; io e mio padre cercavamo di starci accanto, goffamente, rivelandoci la paura di essere in qualche modo responsabili di ciò che era successo. Era scoppiata una bomba senza preavviso e ognuno andava avanti come poteva ma aiutarsi era molto difficile. Il dolore era incontenibile, ognuno lo teneva per sé, esplodendo di tanto in tanto per stupidaggini. Tornata a scuola fu durissimo, Lorenzo frequentava il mio stesso Liceo, molte persone mi trattavano con imbarazzo, tenendomi a distanza, pochi mi si avvicinavano; io ero diventata un’altra, non avevo la forza di mostrarmi sofferente, di farmi riconoscere, volevo fare finta di niente, essere quella di sempre, ero arrabbiata come tanti altri e non sembrava così strano tra gli adolescenti.

Le ragioni erano diverse, io avevo preoccupazioni enormi per la mia famiglia che vedevo sprofondare ed ero disperata perché sentivo che la mia giovinezza era finita ed ero sola dato che non avevo il coraggio di condividere le mie vere angosce con nessuno. Sola e profondamente diversa, per fortuna avevo capacità di fingere, almeno per qualche ora al giorno, che importasse anche a me dei 4 a scuola e dei ragazzi, sapevo bene che non era per niente così; eppure, la vergogna di confessarlo era tale che preferivo vivere in una doppia gabbia che mostrare i miei sentimenti.

Francesca


Quando muore un figlio, se ne vanno con lui anche i genitori. E i fratelli possono solo guardare, disarmati. Diventano invisibili, a maggior ragione se non sono più bambini, “tanto si sanno arrangiare, tanto di noi genitori non hanno più bisogno”. Si è catapultati in una realtà che toglie la libertà e la possibilità di essere sé stessi.

Tutto è penalizzato e vincolato dallo stato dei genitori. Il dolore dei fratelli resta inosservato, sottopesato ma sovraccaricato dalla responsabilità di non aggiungere in alcuna maniera altri dispiaceri o delusioni al fardello dei genitori. Dolore, rabbia, smarrimento, senso di abbandono nascosti e minimizzati dall’obbligo di comprensione, di sostegno, di responsabilità.

Paolo e Marina,  figli, orfani del fratello

Non ho portato i miei figli che erano bambini piccoli, ma in grado sicuramente di capire e partecipare, al funerale di mia madre, della loro adorata nonna. Eppure non ero una bambina, ero una donna, avevo trentacinque anni.

Perché, oggi mi chiedo, perché sono stata così insensibile, fredda, disattenta? Chi mi ha fatto pensare che non lo dovevo fare? Che era meglio per i bambini rimanere a casa a giocare? Come sono arrivata a pensare che separarli dal resto della famiglia, nascondere il dolore di cui eravamo pervasi, volesse dire proteggerli e lasciarli immersi nella serena innocenza dell’infanzia? Perché ho pensato che non fossero in grado di capire, che si sarebbero spaventati, impressionati troppo? A oggi, e sono passati vent’anni, non trovo risposta.

Non mi sono fatta tante domande allora. Non quante me ne faccio oggi. Ma so che due cose hanno giocato a favore di questa scelta superficiale e insensata. Da una parte sicuramente le convenzioni e la pressione dell’ambiente, accettate passivamente, senza giudizio, per una volta. Era più facile così, forse: “i bambini vanno protetti”, “i bambini si annoieranno e non capiranno”. “Meglio che sappiano il più tardi possibile che la vita non è solo bellezza ma anche dolore, malattia, sofferenza, separazione”. Era questo il tema dominante: teniamoli nel parco giochi il più a lungo possibile. Che non sappiano mai che amare vuol dire anche perdere.

Sono rimasta chiusa nella rete delle pressioni familiari e ho lasciato i miei figli a casa.

Ma ha anche giocato la paura: la mia paura di trovarmi senza spiegazioni davanti a loro, di non sapere cosa rispondere alle loro domande, la paura di far vedere la mia sofferenza. E a tutto aggiungo la mia paura della loro paura: che percepissero la fragilità nella quale viviamo, la mancanza di sicurezze, che uscissero dal “paese dei balocchi” e scoprissero il lato oscuro della vita, l’altra faccia della medaglia.

Oggi so di aver sbagliato. Lo sapevo anche allora ma in realtà non volevo saperlo. Ci ho ripensato negli anni tante volte a quella me che oggi non riconosco e che detesto. Se a qualcosa è servito non portare i miei figli al funerale della nonna è stato per le domande che mi sono fatta dopo, per il modo in cui anche se piccoli, ho sempre cercato di farli partecipare e coinvolgerli, anche nei momenti difficili della vita di famiglia, o della vita di uno o dell’altro di noi.

Eleonora